L'innovazione è ...

Ultimamente in rete si stanno moltiplicando i dibattiti sulla definizione più appropriata del termine “innovazione”. Vi si possono leggere definizioni originali e centrate, altre meno, alcune davvero sbagliate. Anch'io mi sono trovato nel bel mezzo di alcune di queste discussioni ad esporre considerazioni, a contestarne altre, anche a venire contestato.

Del tema se ne stanno occupando anche vari workgroup di organismi normativi internazionali (ISO-TC 279 / CEN-TC 389 / CEN 16555-1), per cui tra un paio d’anni, quando ci troveremo a discutere su cosa sia l’innovazione, dovremo riferirci a tali definizioni standardizzate.

Tuttavia il fatto che alcuni esperti (sono coinvolti anche CERN, OECD e WIPO) decidano che una certa cosa si definisca in un certo modo e con un certo significato non mi fa dormire sonni tranquilli. Ciò non tanto per gli eventuali errori semantici o logici nei quali, forse, potrebbe incorrere chi definisce un certo standard, ma per quanto una eventuale lettura distorta di certi termini normati potrebbe ledere alle strategie che sosterranno l’innovazione.

Mi spiego con un esempio. Pare si formuleranno diverse definizioni in funzione dei vari aspetti del tema, ad esempio una definizione di innovazione intesa come processo, e una definizione per l’innovazione intesa come output del processo, cioè di prodotti e servizi derivati dall'innovazione. Tale semplice ripartizione (pure legittima ma di cui non comprendo la effettiva necessità) cela già una prima insidia. Una possibile definizione di innovazione (come output) che ho visto circolare implica che alcune innovazioni possano emergere dal caso (si pensi alla penicillina, ai post-it, al velcro). Ma se trasliamo questa definizione all'innovazione (processo) rischiamo di fraintendere che anche questo possa avvenire per caso. Anche solo insinuare che l’innovazione possa avvenire per caso potrebbe rivelarsi altamente lesivo delle strategie che la guidano. Del resto già molti innovano sostanzialmente “tirando i dadi”, cioè senza un metodo.

Innovare “tirando i dadi” può, raramente, rivelarsi perfino un successo, ma guai se “certificassimo” certi concetti fraintendendo le strategie. I nostri pregiudizi e la complessità dei sistemi nei quali agiamo sono già fattori più che sufficienti a rimescolare le carte con le quali ci troviamo a giocare. Non credo sia corretto, a fronte di una utilità pressoché nulla, rischiare di innestare pure il “caso” in una definizione di innovazione. Penicillina, Post-it e Velcro sono in effetti noti esempi di scoperte-invenzioni nate dall’acuta osservazione di alcune persone, che da eventi casuali hanno estratto il nesso causale e la “parte utile”. Tuttavia l’innovazione è consistita poi nel sistematizzare e trasformare tali utilità in malati guariti, in foglietti staccabili e in superfici di tessuti unibili.

Molte sono poi le definizioni date da vari guru dell’innovazione, o presunti tali, che legano l’innovazione al business, al fatturato, al vantaggio competitivo. Basterebbe far notare, solo per fare qualche banale esempio, che anche i bambini innovano (non sto parlando di creatività e inventiva), che esistono molte attività del terzo settore che innovano per il bene comune e al di là del business, che anche la criminalità organizzata purtroppo innova (molto bene e senza fatturare). So che certe osservazioni staranno facendo storcere il naso ad alcuni, ma se vogliamo discutere di una definizione dal significato condiviso non possiamo dimenticarci di intere fette del mondo (se preferite potete dire segmenti di mercato).

Correttamente si tende poi a legare la definizione di innovazione a “valore” e a “sostenibilità”, ma allora chiedo, valore sostenibile per chi? Tutte le innovazioni generano valore universalmente utile? Innovare armi, giochi d’azzardo, prodotti che soddisfano falsi bisogni indotti, quale valore reale rilascia. Certamente rilascia valore alle aziende che realizzano certe innovazioni, ma non valore generalizzato, ad esempio non per i competitori, ovviamente, o per certe fasce della collettività.

Vi è poi un ulteriore aspetto, storicamente accettato, che viene usato per definire se si è in presenza di innovazione. È universalmente assunto che l’innovazione, per essere tale, deve essere recepita, cioè deve esistere qualcuno che riceve l’esito dell’innovazione e ne sancisce l’utilità. Ciò, seppure è condivisibile, non mi convince. Provo a spiegarmi attraverso un’ulteriore esempio, paradossale. Se uno di noi, soltanto uno, naufragasse su un’isola deserta e si trovasse costretto, per sopravvivere, a re-interpretare, re-ideare, re-inventare (magari usando tecniche di problem solving e di innovazione sistematica apprese nell'ambito del business) ciò di cui dispone, potremmo dire che sta innovando? Sto dicendo che nessun’altra persona condivide ciò che è generato come nuovo e utile sull'isola, nessuno paga per fruirne e nessuno ne gode (oltre al naufrago). Se dopo dieci anni giungessero sull'isola altre persone e trovassero dei campi coltivati e irrigati con procedimenti innovativi, nuove specie domesticate con particolarissime tecniche, un utilizzo di risorse attuato in maniera originale, perfino delle nuove tecnologie e processi, e se successivamente magari tutto ciò fosse poi perfino brevettabile e reimpiegabile sui continenti e per la collettività, sarebbe tutto ciò intendibile come innovazione, oppure no?

Stirare i concetti come sto facendo, estremizzare i contesti, ingigantire o azzerare i parametri, può disorientare, ma è in effetti una delle molte tecniche di solving e innovazione che voglio qui usare per far emergere se e come sia possibile giungere ad una definizione coerente e universalizzabile di innovazione.

Provo ora a rimettere un po’ di ordine presentando qui di seguito la mia definizione di innovazione. Non so se la riterrete corretta, ma so che è coerente ai quindici anni di fitto studio e pratica che ho dedicato all’argomento. Pure è coerente alle tecniche e alla strumentazione che ho isolato e realizzato per sostenere un certo tipo di innovazione.

Dunque, possiamo definire l’innovazione come “cambiamento desiderato”.

Ma come, tutto qui? Solo due semplici parole?

Si, solo due semplici parole. Alcuni contestano siano troppo deboli e dal significato troppo vasto. Io sostengo che proprio per questo rappresentano una definizione solida e focalizzata. Infatti può essere fatta propria da chiunque e in qualunque contesto, nel senso che è universalmente validabile per chi la pronuncia, per il “desiderante”. Se l’agente desiderante cambia qualcosa di un sistema, qualunque cosa, e l’esito è qualcosa di desiderato (anche se fosse indesiderato secondo l’opinione di altri), allora ciò è, secondo me, innovazione. Intrinsecamente la definizione include anche il concetto di novità (non secondo il linguaggio dei brevetti), infatti se l’esito è un cambiamento per il desiderante, allora è nuovo per definizione, rispetto ad uno stato precedente il cambiamento. Pure include che sia operabile nel business e al di fuori di esso, ed è riferibile sia al processo che al suo output.

È questa dunque la migliore definizione che sono riuscito a sintetizzare, per descrivere l’innovazione come un qualsiasi individuo in qualsiasi contesto la può intendere.

C’è però una sorpresa, io stesso contesto questa innovazione. Attenzione, non la definizione, ma l’innovazione stessa.

L’innovazione per come è comunemente intesa è asistemica, persegue obiettivi locali, è guidata da metriche che quasi sempre generano squilibri sistemici gravi e loop di rinforzo (negativi), può essere, e in effetti spesso è, nociva per altri.

Per questo ho coniato una seconda definizione, non per l’innovazione come comunemente la intendiamo, ma per distinguere una innovazione per come vorrei che fosse intesa e realizzata. Mi riferisco a ciò che ho deciso di chiamare innovazione sistemica.

L’innovazione sistemica è "una strategia intenzionale per la generazione di cambiamento desiderato e di almeno una forma distribuita di valore sistemico sostenibile".

Mi si obietterà che allora tanto vale portare questo significato di innovazione alla definizione di innovazione tal quale data precedentemente. No, sarebbe sbagliato. Serve distinguere che se innoviamo non è escluso (anche se è sistemicamente sbagliato) che si possa “giocare a dadi”, che si possano danneggiare terzi, che ci si impadronisca di valore a scapito di altri, che tutto ciò non sia sostenibile. Oggi in effetti l’innovazione si compie, molto spesso, in questo modo.

Inoltre tentare di traslare il significato di innovazione sistemica, per come io la intendo, a quello di innovazione tal quale rischierebbe di essere rifiutata, giacché oggi non è intesa in questo modo.

Assunto quindi che esistono due tipi di innovazione, asistemica (che può anche essere casuale, dannosa a terzi e insostenibile, come normalmente avviene) e sistemica (che vuole essere strutturata e generare valore distribuito e sostenibile) vi è un ulteriore motivo per mantenere suddivise queste definizioni. Molti fra gli strumenti e le tecniche che ho raccolto e sintetizzato allo scopo di sostenere tale tipo di innovazione sistemica, possono essere in gran parte impiegati anche per realizzare l’innovazione asistemica. Non posso impedirne un trasferimento, ma distinguere i due ambiti e i relativi scopi della strumentazione impone azioni e scelte consapevoli da parte degli agenti. Ognuno è libero di usare un martello per picchiarlo in testa ad un’altra persona, ma sa che il martello è stato inventato per altri motivi (infatti prima hanno inventato la clava). Distinguere ambiti e obiettivi può consentire, della relativa strumentazione, un uso proprio.

E voi come la pensate? Non vorreste diventare agenti di una innovazione che sia sistemica? Se si, provate a fare vostri i significati che ho voluto qui condividere.

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L’innovazione è cosa buona o cattiva ?